L’arte del trasformismo: camaleonti del potere e amnesie di comodo
L’arte del trasformismo: camaleonti del potere e amnesie di comodo (di Paolo Fedele)

C’è una categoria umana che attraversa le epoche senza mai lasciare impronte riconoscibili, se non quelle del proprio tornaconto. Sono i trasformisti. Non quelli del teatro, nobili interpreti del cambiamento, ma quelli della vita pubblica e privata: professionisti del riciclo, funamboli dell’opportunismo, portacabane dell’ultima ora.
Li riconosci subito: ieri erano lì, oggi sono altrove, domani saranno ovunque. Cambiano campo, bandiera, lessico e indignazioni con una naturalezza che rasenta il talento. Non per convinzione, non per evoluzione autentica, ma per restare “in boga”, per non perdere il posto al sole, per continuare a gravitare attorno a quel centro del mondo che per loro coincide con il proprio riflesso.
In questo gioco cinico, anche le persone diventano merce. Ci si vende e ci si svende a seconda dell’utilità del momento: oggi sei fondamentale, domani sei superfluo; oggi ti si esalta, domani ti si rimuove. Il valore non è intrinseco, ma funzionale all’incarico che può servire, al ruolo che conviene occupare, alla narrazione che in quel preciso istante torna utile.
Il trasformista non ha fedeltà, se non verso se stesso. E nel passaggio da una parte all’altra, si sconfessa senza rossore. Ciò che ieri difendeva con veemenza oggi diventa un errore giovanile; ciò che ieri condannava oggi è improvvisamente “complesso”, “contestualizzabile”, “da rileggere”. La memoria, per il trasformista, non è un archivio: è una zavorra da gettare quando il vento cambia.
Questo meccanismo perverso emerge con brutalità quando si osserva il trattamento riservato a chi è stato scomodo davvero. Il caso del compianto comandante Natale De Grazia è emblematico. Per decenni dimenticato, isolato, rimosso. Un uomo che faceva il proprio dovere fino in fondo, troppo fino in fondo, tanto da diventare ingombrante. Non utile, non manovrabile, non spendibile. E quindi messo ai margini, sepolto dal silenzio.
Poi, improvvisamente, la riscoperta. Oggi tutti pronti a osannarlo, a celebrarlo, a pronunciarne il nome con rispetto postumo. Ma dov’erano questi elogi quando era vivo? Dov’era l’indignazione quando la sua figura veniva lasciata sola? È facile glorificare i morti, soprattutto quando non disturbano più. È il trasformismo applicato alla memoria: si riabilita ciò che conviene, quando conviene.
Questo fenomeno assume contorni quasi caricaturali in certi ambienti – a Roma in particolare – dove il trasformismo non è più una strategia ma un costume. Qui c’è chi trasloca ideologicamente con la stessa facilità con cui si cambia tavolo a un aperitivo, convinto che nessuno ricordi, che tutto sia perdonabile purché si resti visibili, invitati, citati.
Eppure il danno è profondo. Perché il trasformismo non è solo una questione di coerenza individuale: è un corrosivo sociale. Logora la fiducia, svuota le parole, rende cinica la partecipazione. Se tutto è reversibile, se ogni presa di posizione è provvisoria, allora nulla conta davvero. Rimane solo la recita permanente.
A fronte di questi camaleonti, c’è invece chi paga il prezzo della coerenza: chi resta fedele a un’idea anche quando non conviene, chi accetta di essere marginale piuttosto che incoerente, chi cambia sì, ma spiegando perché, assumendosi la responsabilità del proprio percorso. Perché cambiare non è tradire; tradire è fingere di non essere mai stati ciò che si è stati.
Il trasformista, al contrario, non cambia: si mimetizza. Non cresce: galleggia. Non rischia: si adatta. E mentre si muove da una parte all’altra, convinto di essere sempre al centro del mondo, dimentica che il centro, senza radici, è solo un punto vuoto.
