*Calabria mia, ma quando ci svegliamo?”
C’è una domanda che mi martella in testa da tempo: ma comu simu arrivati a stu puntu?
Come abbiamo fatto ad accettare tutto questo, a far diventare la disperazione un’abitudine e la rassegnazione una compagna di viaggio?
Ogni volta che guardo gli occhi dei giovani calabresi che partono con le valigie in mano e il cuore pieno di dubbi e speranze, mi chiedo che cosa abbiamo consegnato loro.
Una terra senza futuro. Una terra che li ha costretti ad emigrare pe’ truvari nu travagghiu, pe’ sperari n’domani.
E non parlo solo dei giovani. Parlo anche dei malati, degli anziani, di chi, per curarsi, è costretto a prendere un aereo o un treno, come in un viaggio della speranza.
‘A sanità nostra è na ferita aperta. Gli ospedali sono diventati luoghi dove si elemosina assistenza. E chi ci lavora, quei pochi medici e infermieri rimasti, portano sulle spalle carichi disumani, nella totale solitudine e abbandono.
Io questa realtà l’ho vista coi miei occhi. Ho visto gente piangere nel corridoio di un pronto soccorso, cu’ facci strazzati d’u duluri, con la dignità calpestata, come se la civiltà qui non fosse mai arrivata. Come se fossimo un popolo dimenticato da Dio e dagli uomini.
E poi strade che sembrano trincee di guerra, scuole fatiscenti, collegamenti che mancano, ponti mai finiti. È questo il nostro presente? È questo che abbiamo accettato come normalità?
La verità, per quanto dura sia, va detta: ci simu fatti cummannari pi troppu tiempu da genti ca non avi né cori né cuscienza.
Una classe politica che ha dimenticato il significato del bene comune. Che si gira dall’altra parte quando si parla di ‘ndrangheta, di povertà, di disoccupazione. Una politica che si è servita del potere, ma non ha mai servito il popolo.
E nel frattempo, mentre le cronache ci raccontano l’ennesimo sopruso, l’ennesimu omu piegatu d’a miseria, noi restiamo a guardare.
Ma fino a quando?
Fino a quando dobbiamo subire per trovare il coraggio di ribellarci?
La Calabria è stata la culla della civiltà, ma oggi rischia di diventare – e lo dico con dolore – na terra r’un passatu ca pesa e n’presente ca fa paura. Eppure io continuo a credere che ‘sta terra avi ancora n’anima. Che possiamo cambiare. Ma non con un nome, non con un presidente miracolato.
Il futuro non passa da un salvatore. Passa da noi, dai calabresi che decidono di non abbassare più la testa.
Ci serve una classe politica nuova, pulita, determinata. Genti ca sapi caminari cu schiena ritta, senza paura e senza padrini.
Non servono promesse vuote. Servono due parole chiare: legalità e interesse pubblico.
Abbiamo bisogno di tirare una linea, guardare avanti e dirci: “basta”. Basta con le scuse, basta con i silenzi, basta con la paura.
È ora di riprenderci la Calabria, comu si fa cu na casa abbandonata: a pulimu, a sistimamu, e nci tornamu a viviri.
Perché questa è casa nostra. E non possiamo lasciarla morire così.