9 Luglio 2025
Welness

Professione caregiver: tra vocazione, diritti e burnout

In un’Italia che invecchia sempre più velocemente, la figura del caregiver assume un ruolo centrale nel tessuto sociale: spesso invisibile, eppure fondamentale; che si tratti di prendersi cura di un genitore non autosufficiente, di un coniuge affetto da malattie degenerative o di un anziano fragile del proprio quartiere, i caregiver sono diventati il cuore pulsante di una società che lotta per garantire dignità e assistenza ai più deboli.

In molte città, come ad esempio nel caso dell’assistenza anziani Brescia, questi professionisti – formali o informali – rappresentano un pilastro silenzioso ma solido su cui si regge il benessere di centinaia di famiglie; ma cosa significa davvero essere caregiver oggi? Quali sono le sfide, i diritti e le ferite invisibili di questa vocazione?

Una vocazione che nasce dall’amore ma si trasforma in responsabilità

La scelta di diventare caregiver, in moltissimi casi, non è realmente una scelta: è piuttosto una risposta naturale a una necessità improvvisa, un gesto d’amore che diventa routine, quotidianità, a volte sacrificio.

Si inizia accompagnando un genitore alle visite mediche; poi si passa a gestire farmaci, pasti, igiene personale, senza contare il supporto emotivo continuo che si deve garantire, anche quando si è esausti.

Chi assiste un familiare spesso lo fa senza una preparazione specifica; eppure, in poche settimane si trasforma in un’infermiera o infermiere, in un educatore o in una psicologa improvvisata.

Tutto questo comporta un carico di responsabilità immenso: il benessere dell’altro diventa priorità assoluta, anche a costo di mettere da parte se stessi, il proprio lavoro e la propria salute.

È un lavoro che non conosce orari, pause o weekend liberi; e proprio per questo motivo, non può essere ignorato o considerato marginale nei dibattiti pubblici e politici.

Il diritto al riconoscimento e al sostegno: una battaglia ancora aperta

Nel nostro Paese, la figura del caregiver familiare ha ricevuto per la prima volta un riconoscimento normativo con una legge risalente solo agli ultimi anni, che ne ha delineato il profilo; tuttavia, il cammino verso una tutela reale e completa è ancora lungo.

Sono pochi i supporti concreti disponibili: un’indennità, il riconoscimento previdenziale, servizi di sollievo, sono ancora oggi previsti in forma limitata e spesso accessibili solo con difficoltà burocratiche.

Alcune regioni stanno sperimentando modelli di intervento più avanzati, come la creazione di sportelli dedicati o la diffusione di corsi di formazione gratuiti per caregiver familiari: ma serve una visione nazionale più ampia, che superi le differenze territoriali e metta al centro la dignità di chi assiste e di chi viene assistito.

È necessario un cambio di paradigma culturale: smettere di considerare il caregiving come una questione privata o femminile, e iniziare a inquadrarlo come un tema strutturale del welfare italiano.

Perché, quando viene meno il supporto del caregiver, spesso crolla l’intero sistema assistenziale informale.

Il burnout del caregiver: la fatica che consuma corpo e mente

Spesso sottovalutato o addirittura ignorato, il burnout da caregiving è una delle emergenze psicologiche più silenziose e devastanti; si tratta di una condizione di stress cronico che può portare a depressione, ansia, disturbi del sonno e perfino malattie cardiovascolari: quando si è costantemente esposti a situazioni di fragilità, dolore, dipendenza, la mente e il corpo iniziano lentamente a cedere.

Le emozioni represse – come rabbia, frustrazione, senso di colpa – si accumulano e diventano macigni; spesso il caregiver si isola, rinuncia alla propria vita sociale, alle relazioni affettive, al lavoro.

Eppure, il mondo intorno sembra non accorgersene: “Ma uno lo fa per amore, no?” – è una frase che chi assiste si sente ripetere spesso, come se questo bastasse a compensare la fatica immane.

Per prevenire il burnout è fondamentale che il caregiver riceva supporto psicologico, spazi di ascolto, occasioni di respiro: le associazioni di categoria, gli sportelli comunali, i gruppi di auto-aiuto possono rappresentare strumenti preziosi, ma solo se accompagnati da una reale volontà politica di sostenere chi assiste.

Verso un nuovo patto di cura: equità, empatia, co-responsabilità

La vera sfida oggi è costruire un modello di società che riconosca il caregiving non come una scelta individuale, ma come un atto collettivo; serve un “patto di cura” che coinvolga famiglie, istituzioni, terzo settore, cittadini.

Un sistema in cui il caregiver non venga lasciato solo, ma accompagnato, formato, ascoltato.

Questo significa, ad esempio, promuovere la figura del “care manager”, già diffusa in altri Paesi europei, che coordini i servizi e supporti la famiglia nei momenti più delicati: significa anche garantire agevolazioni lavorative vere, e non solo teoriche; incentivi economici proporzionati al carico assistenziale, reti territoriali efficienti e facilmente accessibili.

Ma, più di tutto, serve una nuova cultura della cura, che restituisca valore all’empatia, all’ascolto, al tempo speso per accudire: perché, in fondo, ogni società si misura dal modo in cui tratta i suoi membri più fragili – e chi si prende cura di loro.

Il valore invisibile di una scelta che ci riguarda tutti

Essere caregiver non è solo un compito: è una chiamata; un percorso pieno di ostacoli ma anche di amore, una presenza costante nella vita degli altri, che troppo spesso passa inosservata: serve uno sguardo nuovo, più consapevole, più rispettoso, più concreto. Serve un cambiamento profondo nella considerazione pubblica e nelle politiche sociali.

Solo così sarà possibile trasformare quella che oggi è una fatica spesso solitaria in una responsabilità condivisa: una professione sociale, finalmente riconosciuta, tutelata e valorizzata. Perché tutti noi, prima o poi, potremmo diventare – o avere bisogno – di un caregiver.