La poesia dialettale di Pippo Prestia di Vibo Valentia – di Pino Cinquegrana
La Calabria in genere e le terre del vibonese in particolare racchiudono, nelle loro parlate locali, un patrimonio linguistico-lessicale e comunicativo comportamentale ricco di costumanze greche, latine, arabe, ebraiche, normanne, francesi, spagnoli e per certi versi anche cinesi (per quest’ultimi basta pensare a parole come cauzi (pantaloni), ma anche quel vivere il pregiudizio governabile attraverso ritualità magiche come il nostro malocchio). Si può dire che la questione del dialetto (dal greco diálektos, che significa “colloquio, disputa”), ovvero l’idioma parlato, fu particolarmente sentito fin dall’antichità nella sua funzione di oralità.
Il tedesco Gerhald Rohlfs, filologo, linguista e umanista, definito l’archeologo della parola, ha indagato a lungo le parlate delle terre calabresi e molto tempo trascorse nei borghi della nostra provincia, definisce, nella sua monumentale opera Dizionario dialettale della Calabria, il nostro dialetto quale nobile linguaggio, anche perché come scrive il linguista John Trumper (1982) il dialetto è portatore di culture multiple
Il dialetto da tempo esprime i valori dell’eredità di un patrimonio culturale pari all’idea stessa della storia dei luoghi, dei musei, dell’archeologia in quanto, a pari dignità, ci permette di comprendere le trasformazioni comunicative-relazionali di un popolo che hanno segnato il cammino nei diversi approcci comportamentali e della tradizione: il matrimonio, il mangiare, il vivere la festa (per dirla con il filosofo Camus). Pertanto, come ebbe a scrivere M.T. Cicerone: nella, parola, nella paremiologia, quanto della poesia, il dialetto arricchisce la nostra humanitas, e, in questa direzione, il dialetto recupera e rende patrimonio culturale sia il senso più stretto del folklore dei cui aspetti l’etnolinguistica e la socio-linguistica sono le discipline di maggiore riferimento, e quindi si può affermare che “lingua” e “dialetto” si integrano a vicenda nei parlanti reali nel senso di speech communities. Da tempo, anche nelle università, lo studio di discipline come la Dialettologia quanto l’antropologia hanno stimolato studiosi quanto in semplici appassionati della parlata a pubblicare di grammatiche dialettali di questo o quel territorio al fine di dare un modus studiandi dell’idioma del luogo, per meglio comprendere il modus vivendi di questo o quel popolo all’interno di una certa subalternità per come scrive l’etnologo Lombardi Satriani, 1980. Con riferimento ai dizionari dialettali, già dal ‘700, numerose opere propongono lo studio della “parola” secondo l’uso, l’origine, la possibile traduzione uno per tutti l’Accattatis.
A Dinami vi è persino il museo del dialetto!
Comunque, già a partire dalla prima metà del Cinquecento (Orlando Pescetti,1548) l’interesse per lo studio dialettale era diventato una attenzione nazionale.
Una storia lunga, quella della parlata popolare, diversa per gli abitanti della pianura da quelli della montagna perché adattata all’ambiente socio-lavorativo in una sorta di weltenshauung dei luoghi, che ha indotto Santino Lombardo a sottolineare che: Recuperare il dialetto locale non è affatto un’operazione “nostalgica” bensì un modo per riappropriarci della nostra identità, tra l’altro tutelata dall’Unesco e dalla Regione Siciliana che, di recente, ha fatto rientrare il dialetto nel cosiddetto “Registro delle Eredità Immateriali” (R.E.I.). Oggi, purtroppo, tante espressioni del nostro idioma tipico sono scomparse a causa di quella omologazione culturale che spinge a parlare unicamente la lingua italiana, sicuramente strumento indispensabile per farsi capire ovunque, ma che non deve comunque annientare il nostro passato. Fu, comunque, con i Canti Ossianici di Macpherson che, a partire dal periodo Romantico, dalla Germania si sviluppò maggiormente l’interesse verso la parlata del popolo studiata e raccontata, nel 900, da Pier Paolo Pasolini, da Trilussa (Carlo Alberto Salustri). Con Camilleri il dialetto è parte integrante con la parlata nazionale del romanzo che, altrimenti, l’intero racconto avrebbe perso persino l’identità del messaggio letterario. Una premessa, seppure veloce ma fondamentale per comprendere la poesia di Pippo Prestia che si innesta in tutto questo in merito ai valori strutturali del piede linguistico nel verso usato, nelle tonalità secondo le condivisioni degli accenti (atoni/tonici/piani) per dare azione evocativa alla narrazione dei fatti che parlano di amori e affanni, di sentimento ed emozioni, di passato e presente, di memoria e necessità di vivere la festa, le tradizioni, le costumanze che ancora emanano, attraverso i versi di Prestia, il profumo dell’antico riecheggiare di voci e parole della nonna affaccendata ad occuparsi di cose domestiche all’interno di un mondo magico narcotizzante che ci è appartenuto, fatto di favole, leggende, storielle che noi storditi e affascinati come se stessimo vivendo l’incantesimo della parola narrata ascoltavamo come il susseguirsi di frames di un film.
Pippo Prestia è l’erede legittimo di Vincenzo Ammirà, in quanto alla natura dialettale della comunicazione attraverso la sua vergatura presenta il verso secondo l’ispirazione della musa che gli trasmette la bellezza della parola ricercata, carica di significato che si espande musicalmente; ha l’immensità narrativa perché fa memoria di quanto narrato tra il ieri e l’oggi; è funzionale in tutte le stagioni. Mi vengono in mente le parole di John Keats nel sottolineare che il suo nome sarà subito dimenticato perché scritto nell’acqua, in realtà da sempre le sue odi esprimono l’eternità… ecco questo sentire calza perfettamente al poeta Pippo Prestia, le cui poesie, con la sua firma, saranno sempre preziosità per meglio comprendere come siamo stati in tutti i linguaggi multipli della nostra vita fatta di corteggiamenti, amori, appuntamenti di fede tra sensibilità emozionale, pensiero lirico e visione del sublime. L’amore e la donna sono temi dominanti nell’opera dell’amico poeta, che propone al lettore con la giusta passione fatta di sguardi e di visioni, approcci in cui certe volte subentrano più lingue nella stessa quartina: la primavera vitti stamatina quandu chiss’occhi mei ncuntraru i toi! Una poesia che continua usando il termine arrassari dall’arabo arrada o arosa; sbarijatu dalla voce greca Bariaχ, o la voce latina saracijari.
Un raccontare secondo canoni carducciani dell’ascolto, del sentire e del dire. Dove a ntisi riprende l’attenzione di quanto percepito anche in termini metafisici e in ta dissi, subentra un raccontare secondo spazi e tempi metastorici come nella poesia sul “Natale”, espressione atemporale: né ura e né jornu. In tale modus agendi è un carducciano puro (Davanti a San Guido).
Il logos ercomenòs della poesia dell’amico Pippo Prestia passa attraverso una visione panteista della luce della lumericchia che riporta alla chiarorea prometeico della conoscenza:
oh lumaricchia mia chi si piatusa
mo chi ti trovi subba a sta buffetta
tu m’arricordi l’era prezijusa
quandu ajumavi u ncentru da buffetta.
Ed ecco l’l’ercomenòs. La lumericchia, dal francese “lumier”, termine usato dai poeti della scuola siciliana, Jacopone da Todi “andare senza lumera è un precipitamento”, il poeta la vede proustianamente là, sulla buffetta, dallo spagnolo “bufete” e anche lui è ancora presente con la memoria illuminata da quella fioca luce rievocatrice di lumi, lanterne che hanno illuminati il cammino dell’uomo per la strada, il contadino al ritorno notturno dalle terre, al lavoro delle donne che lavoravano la tela nelle case anche di notte. Sguardi e destini, restanze e partenze diventano fatti linguistico-sociali che il poeta Prestia affronta quasi con supplica verso chi può dare ristoro, e invita a tutto ciò l’agire da palumbeja:
vanci a dire a lu guvernu
c’avaria d’aviri scornu
mu fa suffriri la genti
di sta terra senza nenti.
Non può sfuggire un tale sentire che unisce il grido di Prestia a quello di Vincenzo Franco che invita il governo a cambiare rotta nell’aumento delle tesse contro tanta misera gente altrimenti quandu veni l’uscri pigghia cazzi. O ancora al Padula di Serra San Bruno: non vidi o pataternu lu mundu mu sdarrupi, chedi abitatu di lupi e piscicani…
I versi di Prestia fanno parte del colonnato del tempio della poesia calabrese, per la sua essenza filosofica in cui il dialetto è strumento e/o mezzo, necessari contro le tentazioni moderne, le ingiustizie e, allo stesso tempo, la sua poesia è chiara espressione di quanto la letteratura erudita e la demologia contribuiscono largamente allo sviluppo della cultura nazionale senza conflittualità linguistiche o intraculturali anche perché il problema scrittuale ormai è stato superato da tempo (Cardona, 1976) come dirà Zanzotto patois verso koiné ormai caratterizzata, quest’ultima, persino da una moda identitaria delle nostre radici multiple tra storia, mitologia e religione.
