Il racconto di una stagione dell’anima, tra fede, lavoro e la poesia semplice della vita contadina
I miei pomeriggi tra ulivi secolari, colori autunnali, incantevoli tramonti e tanti ricordi
Sento ancora la voce di mia madre che, china sul terreno, aveva solo lo sguardo su quelle palline verdi o nere, piccole e grandi che parevano reliquie piovute dal Cielo.
“È il Signore che ce le manda e nessuna di essa va lasciata a terra”. Era la sua fede, quella di sua madre e di sua nonna, quella dei tanti avi prima.
E lei, come aveva visto fare, stava dietro a noi ragazzi distratti a raccogliere persino i noccioli bruciati dal sole e rovistare tra i rovi e le spine, dove ce n’era sempre più di una che a lei non piaceva lasciare che si perdesse.
Bacchiava mio padre con una lunga canna e ad ogni tiro sembrava davvero che il cielo benigno ci inondasse di grazia.
“Vento, vento, portami via con te, raggiungeremo insieme il firmamento dove le foglie brilleranno a cento”.
Cantava felice mia madre a salutare quell’abbondanza, e noi figli con lei gustavamo con gioia l’atmosfera di serenità e pace che la fatica nobilitava.
Nei rari silenzi ci ponevamo ad ascoltare le voci dei nostri parenti o amici non lontano da noi, anche loro impegnati a scuotere e raccogliere l’oro che la nostra terra ci dava.
E quando c’era qualche distrazione di troppo ed il paniere quasi vuoto, ecco che arrivava perentoria la sollecitazione a sbrigarsi, a finire di raccogliere sotto quella pianta per passare ad un’altra.
E se un po’ di noia cominciava a prenderci, era sempre la mamma a spronarci per un altro sforzo e la promessa di una piccola pausa.
“Anche se fate poco va bene lo stesso, perché a me e a vostro padre ci risparmiate un po’ del lavoro, e poi la vostra compagnia è importante a non sentirci soli” – ci diceva – per farci capire che, se condiviso, il lavoro è meno gravoso.
“Ejàti ejàti, ca dopu jamu ‘nto chianu e si cogghja miegghiu!”
“Orsù, fate un altro sforzo che dopo sarà meno faticoso, perché avremo un terreno pianeggiante e più agevole dove fare la raccolta.”
Così, tra confortanti parole di ottimismo, che accoglievamo sempre con comprensibili innocenti gesti di stizza, avvertivamo pure la responsabilità di dare un aiuto ai nostri genitori. Ci pareva doveroso andare avanti anche se con un po’ di sacrificio, al punto che ci invogliavamo uno con l’altro.
Era richiesta la nostra presenza solo quando le scuole erano chiuse e nelle festività dei morti. Ci faceva bene l’esperienza della campagna e quel contatto con la natura era salutare. Quante cose si imparavano con la vicinanza ai più grandi! Quel mondo in libertà ci fortificava, ci faceva vincere le paure, superare gli ostacoli e i disagi, ci rendeva più consapevoli dei nostri mezzi e delle nostre potenzialità. Si diventava più sicuri, proprio come i personaggi dei fumetti della nostra età.
Era il tempo delle scoperte e delle esplorazioni, della conoscenza del mondo floreale e faunistico.
Ricordo che sperimentavo sul campo quanto si apprendeva a scuola: guardando la corteccia degli alberi, distinguendo le loro foglie e i loro frutti.
E sotto le loro fronde, sul suolo, variava anche la specialità dei funghi, la cui scoperta – sotto il fogliame – suscitava con la sorpresa anche una certa euforia che distoglieva poi da quella che era la vera ragione del trovarsi in campagna.
E come si può dimenticare il piacere di guardare verso l’orizzonte, pensare alla fatica, ai sacrifici che comportava la vita di campagna pur con l’innata riconoscenza e quel benedire la Natura che dava da vivere?
Il momento migliore? Quando grandi e piccoli insieme sedevamo sull’erba attorno ad una tovaglia posta sul prato, con una bottiglia di vino rosso al centro. Non c’erano posate, ma solo spicchi di cipolla come cucchiai e pezzi di canna con la punta come forchetta.
Boccette di olio e sale portato da casa, insieme alle olive schiacciate e al pesce all’olio (le moderne scatolette di tonno), qualche soppressata e dei pomidori ormai maturi trovati qua e là nell’orto, che con foglie di basilico profumato e peperoncino venivano mescolati nel capiente vasellame di terracotta.
Di fronte a quel banchetto rustico, noi più giovani – morsi dalla fame ed invogliati da quell’insieme di profumi – non riuscivamo a trattenerci.
Ecco perché li sento ancora sacri questi luoghi.
E quando c’è l’occasione per ritornarci, mi piace girare e ritrovarmi tra le piante, toccarle, osservarle come un tempo, prendere i loro frutti e ringraziarli della loro generosità.
Sedermi accanto allo stesso tronco e da lì guardare verso l’orizzonte, godermi nel silenzio del crepuscolo lo spettacolo meraviglioso del tramonto del sole.
E… pensare, al privilegio che mi è riservato, ma anche rivivere l’atmosfera e le tante care figure che hanno condiviso con me quei luoghi di silenzio e di pace.