Fermare il tempo: ricordi di un paese, tra fuochi e partenze
Fermare il tempo! Era il mio grande desiderio. Mi prendeva puntualmente, a Francavilla, guardando i fuochi d’artificio alla fine della festa del Protettore San Foca. La gente si appoggiava al lungo muro a serpentone, dai “Catafarchi” fino a piazza Castello, con gli occhi rivolti al cielo. L’incanto dei colori illuminava la valle dei Luchi, mentre il fragore dei fuochi scuoteva i cuori, come bambini davanti a una sorpresa.
Un rito collettivo
Per noi del posto era un appuntamento imperdibile: un ritrovarsi, un augurio di ritorno, un arrivederci all’anno successivo. Nell’attesa cresceva il clamore della gente, i commenti, la condivisione delle emozioni. Noi ragazzi, soprattutto, vivevamo quella magia con frenesia: alla ricerca di un posto appartato per un bacio furtivo con la ragazza conosciuta al mare. Piccole passioni estive, intense, indimenticabili.
Le prime lezioni del distacco
Ma la fine dei fuochi segnava anche la fine delle illusioni. Lì si imparava, senza saperlo, il senso del distacco: promesse di amore eterno che si dissolvevano con l’inizio delle scuole. Esperienze che scavavano solchi interiori, preparandoci ad affrontare altre partenze, più dolorose: quelle dei genitori, degli amici, dei compaesani costretti a emigrare.
Partire è un po’ morire
Negli anni ’60, a Francavilla, era consuetudine accompagnare chi partiva. Ricordo le famiglie del Piano di Brossi dirette in Piemonte o in America. Sempre lo stesso copione: lacrime, addii, il paese che si svuotava della sua anima. Mia nonna Vittoruzza, rimasta sola, me lo insegnò con le sue parole: “Partire è come morire”. La Merica l’aveva privata del marito, senza neppure un corpo su cui piangere.
L’anima dei luoghi
Ogni partenza riapre quella ferita. Anche oggi, ogni volta che lascio il paese, torno a sentire le parole manzoniane della Lucia: “Addio monti sorgenti…”. Mi porto dietro l’affanno di ciò che manca: il respiro del paese, il profumo dei cibi, il vociare dei bambini, le giocate a carte sui gradini, l’albero al Piano di Brossi, i volti cari alle fontane.
Radici che non si spezzano
Sono le radici a tenerci legati a questo microcosmo, fatto di dialetto, sguardi, gesti, tradizioni. Radici che non si spezzano, nemmeno quando la vita ci porta lontano. È la nostalgia che ci richiama, che ci riempie, che ci nutre.
Siamo figli dell’emigrazione, e queste sensazioni ci appartengono. Sono scolpite sulla nostra pelle.