17 Settembre 2025
Italia

A piedi nudi nell’anima: l’Agosto perduto di una generazione

Lo aspettavamo con ansia, una volta finita la scuola. Per dare sfogo ad un incontrollato bisogno di libertà che ci pervadeva fin dalle prime avvisaglie di caldo che annunciava l’estate. Basta con i grembiuli e la cura minuziosa dell’aspetto; basta con il fardello della “zana” , con dentro il sussidiario e le fette di pane con il formaggino,o le fette di soppressata dal profumo intenso che non sfuggiva a Boby, il cane randagio, sempre vivace e giocherellone che, confidando in qualche pietoso boccone ci accompagnava fino al limitare della strada; basta con quelle gravose alzate mattutine per raggiungere ancora insonnoliti le aule scolastiche, ospitate allora in stanze di case private.

Violare quelle regole quotidiane era il massimo per ogni ragazzo della mia infanzia. E l’apice di questa condizione, il godimento maggiore … andare a piedi nudi. Potersi “scazare”, liberarsi delle scarpe, era un privilegio, una vera goduria.
Che sensazione meravigliosa il contatto con il terreno argilloso e con l’asfalto. Dapprima timido, a saggiare quasi l’appoggio, proprio come fanno i pargoli quando la propria mamma tenta di farli scendere dal braccio a prendere confidenza con il pavimento e muovere i primi passettini. Poi sempre con maggiore sicurezza e decisione, fino a rendere, con il passare dei giorni e i kilometri percorsi, la pianta dei piedi una vera e propria corazza callosa che non sentiva neppure le spine e i sassolini.

Capitava spesso che inavvertitamente, l’alluce del piede andasse a sbattere contro qualche gradino o nel tentativo di tirare un calcio ad una palla si mancasse il bersaglio. Quello che seguitava era un dolore lancinante accompagnato da bruciore e dalla fuoriuscita copiosa del sangue con il repentino cambiamento di colore dell’unghia che diventava nera. Pronte le mamme ad intervenire per fermare l’emorragia con delle pezze di stoffa legate con lo spago ed imbalsamare come un salsicciotto il povero ditone. Erano le ferite delle nostre battaglie che non riuscivano mai a fermarci e che, per ingenua civetteria, eravamo fieri di esibire.

Imperterriti correvamo dietro ad un pallone o a qualunque oggetto avesse forma sferica. Quanti vetri delle finestre abbiamo rotto; provocato irritazione in chi mal sopportava i continui fastidiosi schiamazzi e strilli insopportabili che il nostro slancio e la nostra euforia generavano. Bersagli delle nostre irrequietezze erano i gatti e le galline con cui ci contendevamo gli spazi delle strette vie nel magico rione del Borgo antico, a Pendinu.

E poi come non ricordare i “carri” con i cuscinetti, spinti pericolosamente nelle discese più ripide, che producevano un rumore insopportabile. Le interminabili giocate a carte con Luigi e Giacinto quando tornavano da Reggio sulle scale da maistra Maria a Pia. Le tasche piene di nocciole con cui formavamo i castelli per poi abbatterli da una certa distanza con un altro nocciolo riempito di piombo per renderlo pesante e di maggiore impatto. La pirri con i lunghi lacci sempre tra le mani.

E con i giochi mi torna spesso in mente quel singolare modo di stemperare la calura dei pomeriggi agostani che ci vedeva sdraiati sul pavimento, a petto nudo ed in mutande, per trovare un po’ di refrigerio. Si fa strada tra i tanti ricordi, e me ne vergogno un po’, il cono gelato che don Condello mi mandava a prendere da Micuzzu Barbina. Con il caldo eccessivo, nonostante il breve tratto per arrivare a casa sua, non c’era verso di farglielo arrivare intatto. Così che ero costretto a leccare il mio, da una parte, e quello dell’arciprete dall’altro che mi si scioglieva tra le dita.

In questo sguardo al passato mi tornano cari i tanti volti dei compagni di quell’età. Tra loro i figli di commare Nuzza “a puliota”, che abitavano la casa proprio a fianco della chiesa. Con Toto’ e Foca, quando il loro papà non li portava in campagna, guardavamo dal muretto, posto all’angolo della porticina laterale della chiesa, il mare lontano, e nel commentare gli incantevoli tramonti e le luci della marina sognavamo un giorno di poterlo vedere da vicino.

Agosto era poi il ritorno degli emigrati per la festa di San Foca. Vivevamo con gioia quei rientri. Almeno fino ai primi anni. A poco a poco, si cominciava ad avvertire un clima diverso. La distanza ci aveva cambiati.

Eppure eravamo stati i ragazzi ‘do “chianu”. Di quel luogo magico del paese dove un tempo c’era il Castello (oggi Chiesa di San Foca) che dominava il Borgo e le Torri, la via Magliacane e le Timpe sotto i Luchi, e poi … ‘u Chianu. Angoli magici di straordinaria bellezza e poesia, con il fascino della loro atmosfera che sapeva d’incanto e noi passavamo il tempo incuranti del privilegio dei luoghi che ci cullavano. In quegli spazi, la fontana era una vera attrazione e punto di ritrovo di intere generazioni di uomini e donne. All’ ombra del grosso albero cinto da un muretto, a tutte l’ore, una fila interminabile di giovani e vecchi, mamme e ragazzini, stazionavamo tutti insieme ad attingere l’acqua in brocche di creta.

Che sensazione di leggerezza procurava l’immergere i piedi, arsi dal calore dell’asfalto nella piccola vasca di pietra sotto il getto dell’acqua corrente della fontana. Un vero sollievo! E quanti padri di famiglia, di ritorno dalla campagna, con l’asciugamano in spalla e la saponetta, trovavi lì a lavarsi. Riempivano le mani e soffiando, nell’incavo, se la portavano verso il viso per una abluzione rigenerante. Quei gesti, il rumore di quei momenti non li ho più visti e sentiti.

Come indimenticabili sono quelli quando accompagnavamo le nostre mamme al fiume per lavare i panni. Non c’erano lavatrici allora e nemmeno l’acqua in casa, così che si era costretti ad andare sui corsi dei fiumi che cingevano il paese. Si scorazzava senza paura nell’acqua per prendere ranocchie e granchi sotto lo sguardo vigile delle mamme che, vicino ad una grossa pietra, faticavano con tutta la forza necessaria a sbattere lenzuola ed ogni indumento dopo averlo sciacquato nella “gurna” creata in precedenza sbarrando le acque.

Non ci si annoiava allora. Non c’era il tempo. Anche perché, per non stare sulla strada ad oziare, finita la scuola, molti genitori pensavano di far vivere ai propri figli l’esperienza di lavoro presso i falegnami, i sarti ed i barbieri, il fabbro.

Tutt’altro mondo e stile le ragazze. Loro si distinguevano invece per la dolcezza, la pacatezza, e direi l’eleganza che mettevano in tutto quello che facevano. Andavano pure loro dalle sarte ad imparare il ricamo e in quei luoghi era un continuo pullulare di giovanotti che stazionavano per uno sguardo, un sorriso, un cenno di intesa. Quelle più in età scolare nei loro lineamenti adolescenziali praticavano il gioco della “staccia”, con i loro salti su una gamba a prendere il pezzo di “stracu” nei riquadri segnati a terra, o nei movimenti garbati e decisi dell’ ”un, due, tre, stelle” in cui già facevano vedere i primi segni della loro grazia.

Non era facile condividere con le ragazze i classici giochi. Non ci volevano vicini. Anzi, le più riottose si mantenevano a debita distanza, per paura di essere richiamate dai loro familiari sempre vigili ed attenti. E proprio allora che i nostri giochi di sguardi furtivi diventavano più assillanti e decisi. Fino a sentire il fuoco dell’emozione attraversare, con un brivido, tutto il corpo quando si era ricambiati con un sorriso pur accennato che bastava a mandare nel parossismo il cuore e creare quel piccolo imbarazzo che infuocava il viso.

Era un senso di leggerezza, un’infantile irrefrenabile azione fuori dalla nostra volontà e capacità di discernimento, scoprire i limiti di uno scenario di regole che volevamo a tutti i costi superare con la nostra sfrontatezza. Il modo inconsapevole di voler conoscere la vita che ci spingeva a giocare d’anticipo su tutto.

Carico di queste note era il nostro agosto. Un tempo passato cui guardiamo, ahimè, con tanta nostalgia. Il tempo della nostra età breve che non torna più…!