“Vecchi” a chi? Riscoprire il valore della longevità contro la cultura dell’esclusione
di Michele Petullà
Nel cuore del nostro tempo iperconnesso e accelerato, dove tutto tende alla prestazione, alla velocità e alla produttività immediata, esiste una faglia invisibile ma profonda che attraversa la nostra società: l’ageismo. Un termine ancora poco conosciuto nel dibattito pubblico, ma che descrive una delle forme più diffuse e subdole di discriminazione: quella basata sull’età. È l’ultima frontiera della battaglia per l’uguaglianza, spesso silenziata, che riguarda milioni di persone. Un fenomeno che ha conseguenze profonde non solo sui diritti degli anziani, ma sull’intera architettura valoriale del vivere comune.
Il termine ageismo fu coniato nel 1969 dal gerontologo statunitense Robert N. Butler – Premio Pulitzer 1976 – per descrivere la sistematica stereotipizzazione e discriminazione delle persone considerate “vecchie”. Come il razzismo o il sessismo, anche l’ageismo costruisce una gerarchia tra i corpi, i pensieri e le vite. Ma lo fa con una sottigliezza che spesso sfugge al dibattito, perché interiorizzata anche da chi ne è vittima.
L’ageismo si manifesta in una varietà di forme: dalla marginalizzazione economica e professionale alla rappresentazione mediatica caricaturale o pietistica delle persone anziane; dal linguaggio quotidiano che infantilizza (“nonnetti”, “poverini”) o ridicolizza (“matusa”, “vecchi rincoglioniti”), fino a politiche pubbliche che trascurano sistematicamente i bisogni specifici della popolazione longeva.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha sottolineato che l’ageismo danneggia la salute, compromette le opportunità di partecipazione sociale, accresce la solitudine e limita l’accesso a servizi adeguati. Ma soprattutto, disumanizza.
Nel 2050, secondo i dati dell’ONU, il 22% della popolazione mondiale avrà più di 60 anni. In Italia, già oggi, quasi un cittadino su quattro rientra in questa fascia d’età, con una crescente percentuale di over 80. Eppure, questa trasformazione demografica viene spesso trattata come una “minaccia” o un “problema da risolvere” piuttosto che come una sfida da accogliere e trasformare in opportunità.
È il paradosso della longevità: mentre celebriamo i progressi della medicina e dell’alimentazione che ci fanno vivere più a lungo, al tempo stesso ignoriamo il valore culturale, sociale ed economico delle persone anziane. Non solo: le escludiamo.
In molti contesti lavorativi, le competenze acquisite in anni di esperienza sono viste come obsolete, e l’età come un impedimento all’aggiornamento. Le politiche di prepensionamento, le campagne pubblicitarie giovanilistiche e la mancanza di progetti intergenerazionali sono solo alcuni esempi di una cultura che ancora fatica a includere.
Il modo in cui i media raccontano l’invecchiamento ha un peso enorme nella costruzione dell’immaginario collettivo. E qui entra in gioco la responsabilità del giornalismo.
Scrivere di “nonni” come categoria omogenea, ridurre la complessità degli anziani alla dimensione di fragilità o nostalgia, mostrare sempre corpi curvi e sguardi persi nel vuoto è parte del problema. Anche l’uso sistematico del termine “vecchio” in senso dispregiativo – o l’assenza di rappresentazione di figure anziane in ruoli attivi e autorevoli – rafforza stereotipi duri a morire.
Serve un nuovo linguaggio. Un linguaggio che nomini senza etichettare, che riconosca senza semplificare, che valorizzi senza cadere nella retorica. Un linguaggio che sappia dire “persona anziana” e raccontarne la pluralità: ci sono corpi forti e fragili, menti lucide e meno lucide, storie di resistenza e storie di resa. Ma soprattutto, ci sono soggetti: non “categorie”, ma persone.
L’ageismo, come ogni forma di discriminazione, è una costruzione sociale. E, come tale può essere decostruita. In questo i media hanno un ruolo fondamentale: devono, contribuire a una narrazione rispettosa e veritiera, evitando narrazioni stereotipate, a vantaggio di narrazioni inclusive, promuovendo l’empowerment delle persone anziane e una comunicazione etica sul tema dell’invecchiamento.
In un sistema democratico maturo, ogni fascia d’età ha diritto di cittadinanza piena. Eppure, nel discorso pubblico gli anziani vengono spesso trattati come un blocco monolitico, oggetto di decisioni altrui, raramente consultati o coinvolti in prima persona.
Un esempio emblematico è stato durante la pandemia da COVID-19: le persone anziane sono state rappresentate quasi esclusivamente come “vittime” o “fattori di rischio”, spesso isolate in modo indiscriminato, senza un reale ascolto della loro volontà. Ma quell’esperienza ha anche portato a galla una verità scomoda: l’emarginazione era già lì, semplicemente è emersa con maggiore evidenza.
Oggi esistono realtà che si oppongono a questa narrazione, promuovendo la partecipazione attiva delle persone anziane in ambito culturale, politico, associativo. Progetti come le Università della Terza Età, i gruppi di “nonni civici” o realtà associative come l’ ”Osservatorio senior”, sono segnali incoraggianti di un possibile cambiamento. Ma non bastano.
Occorre che queste esperienze diventino sistemiche, sostenute da politiche pubbliche inclusive, da una scuola che educhi al dialogo tra generazioni, da media che riconoscano l’autorevolezza della voce anziana.
In molte culture del mondo – dalle comunità native americane ai villaggi africani, fino ad alcune tradizioni asiatiche – l’età avanzata è sinonimo di saggezza, esperienza, equilibrio. Le persone anziane sono custodi della memoria e dell’identità collettiva.
Noi, invece, abbiamo spezzato il legame con il tempo. Inseguiamo la giovinezza come valore assoluto, dimenticando che l’invecchiamento è un processo che riguarda tutti e tutte. E soprattutto, che la qualità della vecchiaia che ci attende si costruisce oggi.
Ri-concepire la longevità significa allora rimettere in discussione il paradigma dominante. Significa passare da una società centrata sulla produttività a una centrata sulla relazione. Significa riconoscere che ogni età ha un valore intrinseco, e che il tempo non è solo consumo o obsolescenza, ma crescita, trasformazione, continuità.
L’ageismo non è solo una ferita per chi lo subisce: è una perdita per tutti. Escludere le persone anziane dalla vita attiva significa privarsi di una ricchezza di conoscenze, di tempo, di cura. Significa impoverire il tessuto sociale e disgregare il senso di comunità.
Abbattere l’ageismo, quindi, non è una questione solo di diritti (pur fondamentali), ma di visione: serve una nuova idea di società. Una società dove le generazioni non competano, ma collaborino; dove l’età non sia motivo di esclusione, ma occasione di scambio.
Un giornalismo etico e responsabile ha il compito – e il privilegio – di raccontare questa trasformazione, di dare voce a chi è stato messo ai margini, di costruire immaginari più giusti. Perché in fondo, contrastare l’ageismo significa costruire un futuro in cui tutte le età possano sentirsi a casa.
E allora: “vecchi” a chi? Chiamiamoli per nome. Ascoltiamoli. Coinvolgiamoli. E, soprattutto, amiamoli, i “vecchi”.