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2 Novembre. Giorno del Ricordo. “Apparteniamo ai luoghi in cui sono sepolti i nostri padri”

Il ritorno al paese e la memoria dei padri

Sono tornato al mio paese anche quest’anno.
Non potevo non venire. Troppo gravoso il peso, imperdonabile l’assenza.
“Noi apparteniamo ai luoghi in cui sono sepolti i nostri padri”, scriveva il prof. Vito Teti citando Joseph Roth.
E non c’è più verità di questa, se pensiamo che ogni nostro pensiero, ogni silenzio, ogni attimo della vita lo dedichiamo al ricordo di chi ci ha preceduto.

Commemoriamo chi non c’è più: a loro dobbiamo il nostro grazie infinito per la vita, per i sacrifici che hanno reso meno impervio il nostro cammino, per averci assicurato progresso, libertà e pace.
Vicino a loro è la nostra dimora ideale, il luogo dell’anima. Perché siamo eternamente legati — con il pensiero e i ricordi — a chi ha avuto a cuore noi e il nostro avvenire.
E nel loro ricordo ci sentiamo intimamente legati anche alla morte.
“Appartenimmo a Morte”, diceva il grande Antonio De Curtis.

I cimiteri: luoghi di pace e di comunità

I cimiteri, sacri luoghi della memoria, non sono solo spazi della pace eterna: custodiscono la storia delle famiglie e della comunità.
Lì, ritroviamo noi stessi.
L’usanza della visita, pur cambiando nei modi e nei tempi, non viene mai meno.

Scriveva ancora Joseph Roth:
“Si torna a trovare i defunti nei cimiteri per immettere ancora simboli di vita: i lumini, il fuoco, la luce, il cibo, le foto, le figure dei santi… Tutto serve ad annullare simbolicamente il buio e la cessazione della vitalità.”

Il ricordo di un tempo: il paese in cammino

Ho vissuto tante ricorrenze del 2 novembre nel mio paese.
Ricordo la processione silenziosa che si incamminava verso il sacro Poggio, quando da bambino, vestito da chierichetto, seguivo Don Vincenzo.
Sul viale del Drago ritrovavi tutto il paese, uomini e donne uniti in un cammino di devozione e dolore composto.

Gli uomini, in giacche di velluto scuro, portavano piccoli ceri rossi; le donne, avvolte negli scialli neri, avanzavano lente, curve sotto il peso del dolore.
Davanti al cancello del cimitero, le grida strazianti di madri e sorelle infrangevano il silenzio, trasformando il Camposanto in un’arena del dolore.

Mi chiedo ancora oggi che mondo fosse quello.
Un mondo in cui la morte si condivideva, la sofferenza si mostrava, il lutto era una condizione collettiva, segnata dal nero degli abiti e dalle porte listate a lutto.

I riti antichi del lutto e il “cunsuolu”

Negli anni ’30, quando arrivò la notizia della morte di mio nonno in America, mia nonna visse un rito arcaico: le sciolsero i capelli, il materasso fu rovesciato e calpestato, simbolo di disperazione e di esorcismo.
Da quel momento, nella casa era lecito sentire solo il lamento dei familiari.
Tutto si fermava: il lavoro, i rumori, persino il suono del mortaio.
Ma subito si accendeva la gara di solidarietà dei vicini: portavano cibo, dolci, caffè. Era il “cunsuolu”, gesto di amore e appartenenza, segno puro dell’identità di una comunità unita nel dolore.

Oggi, tra intimità e cambiamento

Oggi tutto appare cambiato.
Nel mio piccolo paese non si vedono più processioni a piedi: solo auto in sosta davanti al cimitero.
Ognuno vive in silenzio il proprio momento, lontano dagli altri.
Le donne con lo scialle nero sono poche, e la messa al Camposanto si celebra davanti a pochi fedeli.

Il dolore non è scomparso, si è solo spostato nella sfera privata.
Anche i funerali sono mutati: non più cortei lenti, né salme portate a spalla, né orazioni funebri all’aperto.
Le agenzie funebri regolano ogni gesto, e persino i fiori vengono trasportati con mezzi dedicati.

Il Covid ha accelerato questi mutamenti, sostituendo l’incontro con la prudenza, la condivisione con la discrezione.

Un’eredità da preservare

Non possiamo fermare il cambiamento.
Ma possiamo difendere ciò che resta essenziale: il senso di comunità, il legame con i nostri padri, la memoria come fondamento dell’identità.
Finché continueremo a salire, anche soli, verso il Camposanto — con un fiore, un lume, un pensiero — continueremo a onorare la vita attraverso la memoria.

Perché, come scriveva Roth, “evocare il morto significa trattenere la vita”.

Franco Torchia

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