Andare in terapia: i tabù più dannosi nella società italiana odierna

In Italia, nonostante un lento ma crescente cambiamento culturale, andare in terapia è ancora, purtroppo per molti, motivo di imbarazzo o di giudizio: parlare con uno psicologo, cercare dunque un confronto professionale per comprendere meglio se stessi, affrontare le proprie ansie o semplicemente vivere con maggiore consapevolezza, viene talvolta interpretato come un’ammissione di fragilità, come se il solo fatto di avere bisogno di aiuto fosse una colpa.

Eppure, chi sceglie di intraprendere un percorso psicologico, magari con un psicologo e psicoterapeuta a Trento o in qualsiasi altra città italiana, sta in realtà compiendo un atto profondamente coraggioso perché sta scegliendo di fermarsi, di ascoltarsi ed evolversi, tutto mettendo a nudo i pensieri e le paure più personali e intime che li tormentano, affrontandoli e smontandone i meccanismi alla loro base.

Questo pregiudizio, che resiste soprattutto nelle generazioni più anziane o nei contesti sociali meno informati, ha un impatto negativo non solo sul singolo individuo, ma sull’intera collettività; perché quando la sofferenza viene nascosta, ignorata o minimizzata, finisce per esplodere altrove, spesso in forme meno visibili ma altrettanto dolorose.

Le radici culturali del tabù: una questione di retaggi e silenzi

Molti degli stereotipi legati alla psicoterapia in Italia affondano le loro radici in una cultura profondamente orientata all’apparenza, al controllo delle emozioni, alla resistenza come virtù; l’idea che “i panni sporchi si lavano in casa”, che il dolore si debba affrontare da soli, e infine che mostrare debolezza equivalga a perdere dignità, è ancora, disgraziatamente, molto presente, soprattutto in ambito familiare.

Questa narrazione ha costruito, nel tempo, una barriera invisibile tra le persone e il loro mondo interiore: l’introspezione è stata percepita come un lusso, come qualcosa di superfluo e non necessario, mentre il malessere psichico veniva banalizzato, ridotto a essere descritto come semplici “periodi no” o, peggio, a mancanza di volontà e motivazione, così, molti hanno imparato a nascondere le proprie emozioni, a soffrire in silenzio, a non chiedere aiuto.

Questi retaggi non sono facili da scardinare, ma è fondamentale iniziare a parlarne, perché dietro ogni resistenza c’è spesso la paura di essere giudicati, di essere etichettati come “problematici”, “instabili” o “esagerati”, ma la salute mentale è parte integrante della salute generale, quindi ignorarla non fa che aggravare i problemi.

Uomini, giovani e famiglie: chi paga il prezzo del silenzio

Se è vero che il tabù del percorso terapeutico colpisce trasversalmente uomini e donne, è altrettanto vero che alcuni gruppi sociali ne risentono in modo particolare; gli uomini, ad esempio, sono spesso educati fin da piccoli a non piangere, a non mostrare emozioni, a essere forti a prescindere: questa pressione culturale li rende, in età adulta, meno propensi a riconoscere i segnali del disagio e a chiedere supporto. Il risultato è che, troppo spesso, arrivano in terapia solo quando la sofferenza ha già compromesso aspetti fondamentali della loro vita.

I giovani, dal canto loro, vivono in un’epoca in cui il confronto costante – amplificato dai social media – genera insicurezze profonde, essi vivono crisi identitarie, ansie da prestazione, pressioni scolastiche e familiari; eppure, anche tra loro, la terapia non è sempre percepita come un’opzione legittima: si teme di essere etichettati, esclusi, stigmatizzati. Specialmente in contesti come la scuola o l’università, mancano spesso spazi sicuri in cui poter parlare liberamente di questi temi.

Anche le famiglie pagano un prezzo altissimo: genitori che non sanno come gestire il dolore dei figli, coppie che si logorano in silenzi non detti, adolescenti che cercano risposte ma trovano solo confusione; portare il dialogo terapeutico all’interno della famiglia significa aprire un varco nella corazza del silenzio, significa offrire strumenti concreti per migliorare le relazioni, il dialogo, l’ascolto reciproco.

La terapia come spazio di libertà, cura e consapevolezza

Andare in terapia non significa “essere malati”, così come andare in palestra non significa “essere deboli”, tutt’altro, significa prendersi cura di sé, scegliere di ascoltarsi, di esplorare ciò che non funziona, ma anche ciò che può essere valorizzato, ed è un processo che non ha a che fare solo con il dolore, ma anche con la crescita personale, con la costruzione di una visione più chiara e autentica della propria vita.

Uno psicoterapeuta non è un giudice, ma un compagno di viaggio: ascolta, guida, riflette e accompagna i nostri ragionamenti verso una migliore comprensione, per poi decidere come agire, ed è proprio in questo spazio sicuro che si può dare voce a tutto ciò che normalmente resta nascosto, come le paure, i desideri, le tensioni, le ferite. In terapia, tutto è lecito perché tutto è degno di essere ascoltato, esplorato, decifrato.

Questo approccio consente di riscrivere la propria storia in modo nuovo: non negando ciò che è accaduto, ma imparando a guardarlo con occhi diversi, a dargli un senso, a renderlo parte di un percorso più ampio, perché ogni persona ha il diritto – e il potere – di diventare protagonista della propria narrazione.

Uscire dal pregiudizio per costruire una cultura del benessere

Superare il tabù della psicoterapia rappresenta, prima di tutto, voler costruire una nuova narrazione sociale, in cui la salute mentale sia considerata una priorità, esattamente come quella fisica, e significa parlare apertamente di ansia, depressione, crisi, dubbi esistenziali, senza vergogna né paura. Significa promuovere, fin dall’infanzia, una cultura dell’ascolto, della parola, del rispetto per la complessità emotiva di ogni essere umano.

Le istituzioni possono fare la loro parte, così come le scuole, i luoghi di lavoro, i mezzi di informazione, ma molto parte da noi ovvero dal modo in cui parliamo della terapia con gli amici, dal modo in cui rispondiamo a chi ci confida un disagio, dalla nostra disponibilità ad accettare che chiedere aiuto non è una sconfitta, ma un segno di grande maturità.

Sdoganare la figura dello psicologo significa rendere accessibile a tutti uno strumento di benessere essenziale, capace non solo di alleviare la sofferenza, ma di illuminare strade nuove, più consapevoli, più libere.

Abbattere i muri e aprire le porte

Andare in terapia non dovrebbe più essere un gesto da nascondere, ma una possibilità da valorizzare, non è segno di debolezza, ma di forza; non è fuga dalla realtà, ma immersione consapevole nelle proprie emozioni. Se spesso siamo spinti dalla società o dal contesto in cui siamo cresciuti a ignorare ciò che sentiamo, a correre senza fermarci, a reagire invece di riflettere, la terapia rappresenta un atto di potere: ci restituisce a noi stessi.

Il cambiamento culturale in atto è reale, ma c’è ancora molta strada da fare, occorre smantellare, pezzo dopo pezzo, i muri del pregiudizio; costruire un linguaggio nuovo, empatico, accogliente e creare spazi dove il dolore possa essere nominato, elaborato, trasformato.

Perché solo quando inizieremo a parlare di salute mentale come parliamo di qualsiasi altro aspetto della nostra vita, certo, con la giusta empatia, e solo quando inizieremo a dire ad alta voce che prendersi cura della propria mente è normale, giusto e necessario, potremo finalmente vivere in una società più sana, più aperta, più unita.