Uno studio sperimentale del Massachusetts Institute of Technology rivela: scrivere con l’aiuto dell’intelligenza artificiale riduce la connettività neurale, abbassa la creatività e ostacola l’apprendimento. Ma ci sono antidoti possibili
L’intelligenza artificiale può essere uno strumento straordinario. Ma usata in modo acritico, può renderci più passivi, meno creativi e perfino meno “presenti” nei nostri stessi pensieri. È quanto suggerisce uno studio preliminare condotto dal Media Lab del Massachusetts Institute of Technology, che indaga l’impatto cognitivo dell’uso di ChatGPT e modelli simili nei compiti di scrittura.
Il titolo è già eloquente: “Il tuo cervello e ChatGPT: accumulazione di debito cognitivo nell’usare un assistente di intelligenza artificiale per compiti di scrittura”. Alla guida del team c’è Natalia Kosmyna, esperta di interazione uomo-macchina, affiancata da neuroscienziati e linguisti.
Il protocollo è semplice ma significativo. I 54 partecipanti sono stati divisi in tre gruppi: il primo ha scritto testi brevi contando solo sulle proprie capacità mentali, il secondo con l’ausilio di Google, il terzo usando ChatGPT. Durante l’attività, i cervelli dei volontari sono stati monitorati con elettroencefalografia per rilevare le differenze nell’attivazione neurale.
Il risultato? Chi ha usato ChatGPT ha mostrato una riduzione della connettività cerebrale del 55% rispetto al gruppo che ha scritto in autonomia. Anche Google ha avuto un impatto, ma inferiore (tra il 34% e il 48%). Più il supporto è avanzato, insomma, meno il cervello si attiva.
In particolare, il gruppo “senza AI” ha attivato le aree cerebrali coinvolte nella creatività, nell’integrazione concettuale e nell’autovalutazione. Chi ha usato Google ha sollecitato prevalentemente la corteccia visiva. Gli utenti di ChatGPT, invece, si sono affidati a zone cerebrali legate all’esecuzione automatica e alla passività cognitiva.
Ma il dato forse più sorprendente riguarda la memoria e l’identificazione col contenuto: l’83% di chi ha scritto con ChatGPT non è stato in grado di ricordare neppure una frase del proprio testo pochi minuti dopo averlo terminato. I testi scritti “con la testa”, invece, sono rimasti impressi. In sostanza, l’intelligenza artificiale può trasformarci in meri trascrittori di idee altrui, riducendo la nostra capacità di elaborarle, interiorizzarle e farle nostre.
Anche sul piano qualitativo emergono differenze. I testi generati con AI sono apparsi omogenei, privi di variazioni stilistiche, meno personali. I valutatori automatizzati li hanno premiati, ma gli insegnanti umani li hanno riconosciuti come artificiali e li hanno penalizzati nei voti.
Un ulteriore passaggio dell’esperimento ha previsto che i gruppi si scambiassero il metodo: chi aveva sempre scritto con l’AI è stato costretto a farlo senza aiuti, e viceversa. Risultato: chi aveva “delegato” all’intelligenza artificiale ha fatto molta più fatica a generare contenuti autonomi. Segno, secondo i ricercatori, della formazione di un “debito cognitivo” che ostacola la riattivazione delle capacità cerebrali. Al contrario, chi si era abituato a scrivere da solo ha beneficiato, nell’ultima sessione, del supporto dell’AI come strumento potenziante, non sostitutivo.
La conclusione dello studio è netta: «Quando si riproducono suggerimenti dell’intelligenza artificiale senza filtrarli criticamente, si rischia di interiorizzare idee superficiali o distorte e si perde il controllo sul pensiero». Un rischio che coinvolge direttamente scuola, università e democrazia: una società davvero libera non può permettersi menti spente, incapaci di elaborare e giudicare. Serve allenare il cervello – prima di delegarlo a qualcun altro.
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