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Intervista a Simone Locarni, nuovo vessillifero del pianismo jazz multistrato e non solo

Il 28 novembre Simone Locarni, al pianoforte si esibirà in duo, con Tom Arthurs alla tromba, nella suggestiva cornice dell’ Auditorium di San Francesco al Prato di Perugia. Il concerto, denominato «Alianti», è una produzione di Tones On The Stones.

// di Francesco Cataldo Verrina //

La parabola artistica di Simone Locarni si distingue per precocità, rigore e capacità di coniugare tradizione e ricerca. Dalla formazione classica al Conservatorio «Giuseppe Verdi» di Milano fino all’approdo al jazz sotto la guida di maestri come Ramberto Ciammarughi, Franco D’Andrea e Umberto Petrin, il pianista verbanese ha saputo costruire un percorso che lo ha portato a collaborare con figure di rilievo della scena italiana e internazionale, a incidere lavori di forte identità ed a ricevere riconoscimenti prestigiosi in Europa e negli Stati Uniti. La sua recente esperienza come «artist in residence» allo Stresa Festival, con la composizione della «Suite for a Lake», testimonia una maturità creativa che si apre a nuove connessioni tra linguaggi e discipline.

D Quali elementi della tua formazione classica hanno continuato a influenzare il tuo approccio al pianoforte jazz, sia sul piano tecnico sia su quello interpretativo?

R Ovviamente la formazione classica si riflette su ogni aspetto della mia musica: negli anni del Conservatorio ho avuto la grande fortuna di studiare per diverso tempo con Alessandro Commellato, che mi ha insegnato ad approcciarmi in maniera solida e consapevole non solo alla musica classica ma alla musica in generale: tra i suoi insegnamenti sul fronte interpretativo ricordo soprattutto la cura per le intenzioni del compositore ma allo stesso tempo la ricerca del proprio timbro in ogni situazione musicale, una duplice attenzione che ancora oggi conservo e cerco di trasferire nel jazz, soprattutto nell’interpretare i brani o il modo di suonare degli altri.

D In che modo l’incontro con figure come Tom Waits e Keith Jarrett ha orientato la tua sensibilità musicale e la tua ricerca di un colore sonoro personale?

R Keith Jarrett banalmente è stato il mio primissimo ascolto, sin da quando ero piccolo i concerti in piano solo di Jarrett riecheggiavano in casa nello stereo dei miei genitori, e quindi mi hanno dato senz’altro un imprinting decisivo. Tom Waits fu invece la mia prima autentica «scoperta» da ragazzino, il primo artista un po’ fuori dal circuito di ascolti a cui ero abituato a casa: probabilmente all’inizio c’è stato anche un forte fascino per il nuovo, che poi col tempo ha finito per trasformarsi in ammirazione, quindi in vero e proprio amore. Waits rappresenta ancora oggi per me un riferimento assoluto per libertà e integrità artistica, per forza evocativa e allo stesso tempo per attitudine alla sperimentazione anche estrema.

D Quali insegnamenti hai tratto dai suoi maestri Ciammarughi, D’Andrea e Petrin, e come li hai trasformati in un linguaggio autonomo?

R Ramberto è semplicemente l’uomo che mi ha insegnato questo mestiere, che mi ha indicato molte strade e mi ha insegnato a scegliere, e infine colui che alla fine del nostro percorso didattico – intorno ai vent’anni – mi ha messo nelle mani di due grandi musicisti che sono diventati un po’ degli «zii» musicali, ovvero Yuri Goloubev e Riccardo Fioravanti. D’Andrea negli stessi anni di Ramberto ha impersonato l’altra voce, quella meno mistica e più matematica, quella che mi ha insegnato un altro modo di approcciare il piano solo e il repertorio più tradizionale; e infine Petrin è stata la guida della maturità, il docente che mi ha insegnato e aiutato a dare una visione finalmente olistica, totale e autoriale a tutto il mio percorso da studente, permettendomi di diventare un musicista consapevole di sé, delle proprie caratteristiche e delle proprie esigenze.

D L’esperienza agli «Italian Jazz Days» di New York nel 2018 ha rappresentato un passaggio cruciale: quali memorie e quali prospettive ha aperto per la tua carriera?

R Quel viaggio e quell’esperienza la ricordo ancora oggi come un punto di svolta, quasi uno shock: passavo per la prima volta da una dimensione locale, dall’ambiente protetto e quasi familiare del jazz piemontese e dintorni, direttamente a quella internazionale, addirittura nella capitale del jazz. È un momento che ricordo con grande piacere, e tra l’altro è stato il luogo e l’occasione che mi ha portato a scrivere «Ten Stops», il brano che dà il titolo al mio secondo disco e che ogni tanto suono ancora, per me è ancora un brano spartiacque nella mia carriera.

D «Playin’ Tenco» e «Ten Stops» mostrano due direzioni differenti: come si collocano nel tuo percorso e quale idea musicale li sostiene?

«Playin’ Tenco» è stato il mio esordio discografico, e quella di uscire con un omaggio a Luigi Tenco fu una scelta che rivendico e che probabilmente era anche necessaria in quel momento, avevo 18 anni e per me è stato naturale affidarmi a un mondo – quello cantautorale – che conoscevo molto bene e che faceva parte della mia infanzia e della mia formazione. In «Ten Stops» ho voluto uscire un po’ più allo scoperto, dettare una mia linea in maniera più marcata, innanzitutto per la prima volta attraverso brani originali, e poi anche tramite riletture di compositori come Kenny Wheeler e John Taylor, che invece sono parte del mio percorso più recente.

D «Blies», primo lavoro in piano solo, segna una tappa di introspezione: quali sfide e quali libertà hai incontrato nel confrontarti con la dimensione solistica?

R In «Blies» ho cercato di fare un ulteriore passaggio rispetto ai primi due dischi, quello di liberarmi dai vincoli – almeno all’epoca li vedevo tali – degli schemi, degli arrangiamenti e delle strutture, e la via più affine a questo proposito era quella del piano solo: è un disco registrato in due momenti diversi a distanza di mesi, e in entrambi i casi sono entrato in studio con un po’ di spartiti, idee, suggestioni, partendo da lì, senza programmi o idee precostituite. Oggi come allora lo sento un disco istintivo, un’istantanea sincera e fedele di quello che mi passava per la testa in quel periodo, meno stratificata e più libera rispetto a quella dei dischi precedenti.

D I premi ricevuti tra il 2022 e il 2024 hanno consolidato la tua reputazione internazionale: come vivi il rapporto tra riconoscimento istituzionale e ricerca personale?

R Il riconoscimento costituisce sicuramente una parte importante per la carriera di un musicista, è la riprova che quello che stai facendo piace davvero a qualcuno, ma non deve essere mai un obiettivo: al centro deve esserci sempre una volontà artistica, un desiderio di presentarsi ai premi e ai concorsi per quello che si è veramente, per affermare la propria unicità e non per inseguire un modello o delle aspettative. Tant’è che i riconoscimenti che ho ricevuto sono stati anche i più inaspettati: il Bettinardi di Piacenza, che solitamente premia un solismo più legato agli standard e alla tradizione e che invece ho ricevuto suonando tra le altre cose un brano di Paolo Conte in piano solo, e soprattutto il Young Artists’ Jazz Award di Burghausen, premio europeo storicamente dedicato alle band e che per la prima (e finora unica) volta nella sua storia ha deciso di premiare un progetto in piano solo come «Blies».

D L’apertura del festival di Burghausen in dialogo con Ron Carter ha avuto un valore simbolico: quale significato attribuisci a quell’occasione?

R Sicuramente è stato uno degli highlights della mia carriera: pensare che una leggenda e uno dei padri fondatori del jazz come lo intendiamo oggi abbia per puro caso incrociato la mia strada mi ha fatto sentire veramente parte di qualcosa di grande. È stato un po’ come fare la comparsa in «C’era una volta in America»: sei un personaggio minuscolo che passa per cinque secondi in una scena sullo sfondo, ma comunque sei lì, parte infinitesimale di una cosa importante e che è già storia.

D La «Suite for a Lake», concepita per pianoforte, quartetto d’archi e tromba, rivela un interesse per la fusione di linguaggi: quali connessioni hai voluto stabilire tra scrittura jazz e tradizione cameristica?

R Da un paio d’anni uno dei miei desideri era quello di rinsaldare in qualche modo il mio legame con la musica classica, che è stata parte integrante della mia vita per molti anni e che gradualmente ha lasciato spazio alla carriera jazzistica. Quando Mario Brunello mi ha proposto una residenza d’artista a Stresa Festival, il mio pensiero è andato subito a questo mio vecchio pallino, e quindi ho iniziato a scrivere una Suite che mi rappresentasse il più possibile, sia nel dualismo classica-jazz incarnato dai tratti compositivi e dalla scelta dell’organico, sia nella dedica al Lago Maggiore e al Verbano, la terra in cui sono nato e a cui devo moltissimo.

D Guardando al futuro, quali territori sonori e quali collaborazioni immagini di esplorare per ampliare ulteriormente la tua visione musicale?

R I progetti per il futuro sono molti, innanzitutto mi piacerebbe esplorare e dialogare sempre di più con ambienti esterni a quello del jazz, e forse anche a quello della musica, usando quindi il jazz come un idioma, un mezzo di comunicazione più che un genere musicale. Nel jazz invece mi piacerebbe tornare a lavorare con una ritmica, che manca nella mia discografia dal 2018, e con cui sento di avere dei conti in sospeso. Però si sa, nel jazz si possono fare mille programmi ma poi alla fine a decidere sono gli incontri, le illuminazioni e le deviazioni inaspettate che si trovano lungo la strada.

Francesco Cataldo Verrina

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