Di fronte ai quali non si può che rimanere estasiati. E che belli i nostri nostri luoghi ammantati di luce e di splendore in questo meraviglioso fine settembre che lentamente si apparta, pronto a cedere il passo al nuovo mese.
Tutto ha sapore di magia quaggiù dove è il silenzio a parlarti, a cullarti nell’incanto di un tempo che pare fermo e tu provi a gustartelo tutto, guardando lo sconfinato orizzonte di cielo e mare. Lo stringi stretto nel palmo di una mano, lo conservi in uno sguardo e lo difendi per non perderlo.
Come le tegole delle case che abili contadini fermavano con grosse pietre perché il vento non potesse rimuoverli e farli precipitare, ogni giorno, giunti ad età matura, avvinti dalla malinconia, difendiamo i ricordi del nostro passato ricercandoli nella memoria per rianimarli e poterne avere anche consolazione, quella d’aver vissuto stagioni indimenticabili che aiutano ancora ad animare la nostra vita nel futuro breve che rimane.
E mentre l’euforia e la forza di allora primeggiano solo nel pensiero, ben più triste appare la realtà di oggi se l’attenzione va ai tanti comignoli spenti che in altro momento fumavano odori di abbondanza gustosa. Sembra scorrere lento il tempo quì da noi perché ti inebria i giorni di fascinazione e non ti accorgi che passa. Lo senti gravare sul corpo che non risponde più alle volontà di prima, come le stagioni che se ne vanno via lasciandoti indifeso e mai preparato e ti abbandoni a quella maledetta nostalgia che ruba il tempo ed il sorriso.
Familiare mi torna il rintocco della campana della chiesa di San Foca che chiama a raccolta i fedeli e per la via si affrettano le solite abitudinarie donne di fede con il passo ritmato dai tacchi. È l’unico movimento che si coglie. Intorno a me solo case chiuse e un gatto di colore nero che fiuta la preda e si introduce all’interno di una di esse, quella dove il portone appare più vecchio, schiodato quasi dai suoi cardini ed annerito dal sole e dalle piogge.
Ben altra vivacità le animava prima che fossero serrate per sempre dalla sopraggiunta morte di chi era rimasto, ultimo della famiglia a custodirla, o dalla necessità di migrare. Li chiamiamo i luoghi della memoria quei luoghi sacri che custodiscono la vita di intere generazioni che non hanno conosciuto il ritorno sperato. Un senso di pace li avvolge.
E a me che vado errando senza meta tra queste viuzze silenziose mi capita di dare volto e voce alle tante persone che vi abitavano e si scambiavano non solo confidenze ma anche quel modo semplice di vivere la vita che le portava a sognare in quel loro mondo di sogni e speranze limitate. Dov’è ora quella sperduta gente? E dove quelle voci di ragazzi spensierati che si rincorrevano per le vie? Non si sentono più i richiami apprensivi delle madri quando i figli sfuggivano alla loro vista.
E la fila alla fontana per l’acqua da portare in casa, le accese discussioni, quegli sguardi innocenti e furtivi tra ragazzi e ragazze a segnare i primi innamoramenti. Di quei tempi forte era l’odore di mosto che si diffondeva in ogni ruga fino ad impregnare l’intero paese mentre si preparavano, “troppitari e troppiti”, ad inaugurare la stagione delle olive. Ora solo il vuoto! E sono questi i vuoti che ti porti dentro e mai ti abbandonano, così che ti accorgi che in fondo anche se sei lontano non hai mai veramente lasciato il tuo paese.
E che se anche questo vecchio mondo, che ci appartiene ed a cui apparteniamo, dovesse perdere la sua anima e l’identità di un tempo, sarà sempre il tuo paese, il luogo ideale che ti sa avvolgere nella sua magia di vita e legami, di ricordi. Il luogo dove, pur nella sua fragilità di oggi, ognuno ritrova, con il pensiero, il suo vissuto, sperando che possa ancora durare a lungo.
E continueremo ad amarlo perché è scrigno della nostra storia e finché ne avremo la forza. Fino a quando ne sentiremo il richiamo. Perché è qui, a questa terra, che vogliamo affidare con l’ultimo respiro, come sognavano i nostri padri, il nostro riposo. Perché, come scriveva Pavese: Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.
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