Si, che sia benedetta questa mia terra! Perché di benedizioni ne ha davvero bisogno. Ancor più dopo questi giorni torridi ed infuocati che l’hanno vista bruciare; avvolta dalle fiamme che nessun pianto di madre ha potuto spegnere, né il sacrificio dei tanti volontari che con ogni mezzo hanno tentato di opporsi, nel tentativo di limitarne i danni, a quelle spaventose lingue di fuoco alimentate dal vento che provocato hanno desolazione e sconforto.
Avendo negli occhi quelle immagini, in questo giorno di Ferragosto, dopo un bagno mattutino nelle acque del mare di Colamajo dove un tempo si bagnava la gente della mia Francavilla, faccio ritorno a casa come consuetudine, seguendo l’antica rotabile che dall’Angitola sale verso la montagna e ne attraversa le ubertose colline un tempo rigogliose di alberi da frutta, olivi secolari e vigne cidonie.
Là, dove un tempo era possibile vedere tenaci ed infaticabili lavoratori guidare il corso delle acque per abbeverare filari di pomodori ed ortaggi di ogni genere o muoversi tra terreni impervi per controllare i possibili danni della “sciuttìa”, lo sguardo oggi non ha di che gioire.
Eppure in quelle terre ci sono scritti i sogni realizzati dei nostri avi. Quelle terre acquistate con i soldi fatti nelle sconosciute, lontane Americhe. Frutto di sacrifici e lacrime, di disperazione, ma anche di speranza e di riscatto. E la ricordo bene la mia nonna farsi il segno della croce e alzare gli occhi al Cielo per ringraziare il Padreterno quando il raccolto era abbondante e gli alberi sapevano ricompensare il lavoro e l’attenzione a loro dedicato.
E come era sempre presente il timore del fuoco che potesse mandare in fumo le loro attese e le provviste di un intero anno. Così si vigilava sul grano, sulle piante di ulivo, sulle vigne e sugli alberi di fichi, e si provvedeva a tagliare l’erba secca e a fare solchi nel terreno per tagliare la linea di un probabile incendio attivato da qualcuno per dispetto o per invidia. Parimenti si pregava il buon Dio quando tardava ad arrivare la pioggia o quando scendeva abbondante creando disagi e distruzioni. Si imprecava e si benediva al tempo stesso.
La terra era, e rappresentava, la loro vita. Che si amava … ma che si faceva anche maledire! Sempre, però, da rispettare … perché il sudore di ogni uomo serviva a renderla fertile ed è ingiusto, anzi peccato, offenderla e ferirla con il fuoco!
Con questi pensieri sono arrivato al paese. Le vie deserte, sotto la calura, mentre l’attraversavo in macchina, mi provocavano un senso di vuoto. Vivevo la contraddizione di un luogo di mare sovraffollato e lo stato di solitudine del mio paese. Un’atmosfera davvero surreale. Eppure, per certi versi, ricca di fascino.
Da anni, ormai, trascorro il Ferragosto a casa. Una scelta che, lontano dal clamore sfrenato, mi procura piacere, e mi permette di programmare lunghe e solitarie passeggiate nelle silenziose vie e rughe della parte storica di Francavilla. Che puntualmente intraprendo nel primo pomeriggio con in spalla la mia macchina fotografica. Conosco a memoria ogni angolo e di foto ne ho fatte a josa in ogni occasione. Non mi piace il già fatto. I posti non cambiano. Rimangono identiche le immagini e non mi attirano più di tanto. Quello che mi attrae è la quiete.
Folata leggere del vento di marina mi accompagnano come presenza di una guida discreta e morbida. Un gatto si muove sicuro, indisturbato, ad inseguire una lucertola esposta al sole. Sui gradini che conducono là, dove un tempo c’era il Castello, nessuna voce. Aria di casa mia. Che fa volare la fantasia ed i ricordi. Mi fermo a sedere sul muretto davanti alla facciata di quella che oggi è la Chiesa madre, sorta sulle vestigia del castello.
Mi guardo intorno ad inseguire momenti lontani. Grande l’emozione mentre lo sguardo spazia su quelle porte chiuse che mi appaiono invece spalancate ed animate da figure familiari tornate nei luoghi dove ero abituato a vederle. Non li hanno mai abbandonati quei luoghi. Sono ombre che aleggiano, muoversi nelle loro abitudini quotidiane. Sento le loro voci. Ci richiamano i luoghi … e gli spiriti, rimasti a custodire case e memorie, sono ancora là.
Cummara Nuzza, Vittuora e Vicienzu, Mariuzza e Peppinu, ‘Mbertu e cummara Lena, Anna do cordaru, “ ‘U cciprieviti”, Maria, donna Barbarina, Vittorina e Foca, Lena e Vicenzinu; a Signurina,… e mio padre, Mario ed Armando … e tanti, tanti altri che erano presenza viva.
Guardo verso Magliacane dove tutto ormai è cambiato per dirigermi sul Piano. Uno ad uno li riabbraccio idealmente tutti i compagni della mia età e mi stringo a loro ricordando quelle chiassose ed interminabili scorribande all’ombra del grande frondoso albero e nelle lunghe attese alla fontana per riempire le “vozze”. La scuola …, le processioni e gli altri riti religiosi …, i primi innocenti approcci …, i giochi.
Mi fa vacillare il peso dei ricordi e mi allontano da quel silenzio per scrutare oltre la valle dei Luchi, laggiù verso la marina, indorata da lunghi fasci di luce, dove si staglia limpido l’orizzonte con il sole che si avvia al crepuscolo.
Mi accorgo che è volato il tempo. Così chiudo anch’io la mia giornata alzando gli occhi al Cielo per benedire la mia terra … il mio paese!
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