Non chiederò mai permesso ai mediocri,
non busserò alle porte intinte d’assenza,
né lascerò che le mie ali si pieghino
per varcare soglie di stanze senz’eco.
Hanno mani di gesso, i custodi del grigio,
misurano i sogni con righelli spezzati,
incatenano il cielo a lampade fioche,
dicono “libertà” come si dice “orario”.
Ma io ho sete di vertigine pura,
ho sete d’abisso, di spine che parlano,
di quelle voci che urlano dai crateri
dove i miti cadono per risorgere in fiamme.
Non inchinerò mai la mia febbre alla calma,
né vestirò abiti cuciti con paura.
Il mio passo è silenzio che spacca la pietra,
la mia parola uno specchio che brucia.
C’è una foresta dentro la mia fronte
dove i lupi leggono Nietzsche alla luna,
dove le foglie sussurrano verità
che i tribunali del senso hanno condannato.
Non chiederò mai permesso ai mediocri
di esistere intero, di essere tempesta.
Camminerò sul filo teso tra i secoli,
senz’attendere inviti, senz’abbassare lo sguardo.
Che restino pure nei loro recinti,
a contare le ore con sabbia finta.
Io sarò altrove – fuoco, rovina, creazione –
là dove l’anima è nuda
e non chiede perdono.